Il culto del cargo e l’imitazione senza comprensione: come evitare di applicare male l’analisi del rischio alla gestione degli strumenti del laboratorio
Certe idee nascono e funzionano in determinati contesti e può essere fuorviante, se non anche pericoloso, cercare di applicarle in altri ambiti. Questo capita nel caso della religione del cargo come nel caso di certi approcci alla valutazione del rischio nei laboratori, in particolare quando si tratta di frequenze di verifica e taratura della strumentazione.
Il culto del cargo veniva praticato fino a non molti anni or sono in piccole isole del Pacifico da popolazioni tribali, indubbiamente molto propense alla creduloneria. Durante la Seconda guerra mondiale gli indigeni, vedendo grandi aerei giapponesi e poi americani scaricare merci a seguito di fervidi preparativi, come l’accensione di fuochi per delimitare piste di atterraggio improvvisate e la costruzione di traballanti torri di controllo, continuarono a guerra finita e rifornimenti cessati ad accendere fuochi, salire su trespoli di legno, finanche infilarsi sulla testa cuffie anch’esse di legno, per invocare il ritorno dei rifornimenti. Ahinoi, anzi ahi loro, com’è facile intuire, senza alcun successo. La poca competenza applicativa degli indigeni portò a un comportamento imitativo del tutto inutile. Nella religione del cargo l’effetto finale del fraintendimento del contesto è evidentemente ridicolo agli occhi di chi, avendo esperienza concreta del funzionamento delle cose, la competenza la possiede. Simili comportamenti imitativi emergono anche in maldestri tentativi di applicazione di tecniche di analisi del rischio sviluppatesi in tutt’altro contesto a cura di chi di quel contesto aveva ed ha profonda competenza, in un contesto tutt’affatto diverso, ovvero nei laboratori di analisi.
Tentativi privi di competenza applicativa inerente al contesto dei laboratori di analisi. Suggestioni portate avanti da chi di pratica di laboratorio non ne ha.
Nella gestione di processi di manifattura, laddove operano macchinari complessi che richiedono costose manutenzioni, controlli frequenti e regolari, laddove i costi legati a un’interruzione della produzione possono essere enormi e le conseguenze irrimediabili, si utilizzano da decenni approcci basati su valutazioni di rischio e analisi degli andamenti che si sono certamente dimostrati efficaci e virtuosi. I professionisti di questa materia in grado di risolvere e prevenire problemi e contemporaneamente ridurre i costi di gestione operano fruttuosamente in questi settori e incassano, giustamente, laute parcelle. Essi non hanno alcun interesse a rivolgersi ai laboratori di analisi per diffondere il loro verbo, per un semplice motivo: il più grande laboratorio operante in Italia fattura un centinaio di milioni di euro all’anno; il produttore del rotolo di carta che probabilmente avete di recente utilizzato e l’azienda che gestisce la macchinetta del caffè da cui probabilmente vi siete di recente serviti, fatturano sette volte tanto. Molto probabilmente (non ci giureremmo ma vi sono buoni indizi in tal senso: siamo esperti di laboratori e non di manutenzioni nei settori delle cartiere o degli erogatori di bevande) la gestione dei macchinari di queste aziende è enormemente più complessa e costosa di quella del vostro data logger. E stiamo parlando di produttori nazionali di carta igienica e caffè della macchinetta, non della Apple o della Samsung, o di altre aziende che sono in grado di applicare i concetti di analisi del rischio ai livelli più avanzati che si possano immaginare.
E invece vi vengono proposte strane soluzioni per permettervi di effettuare meno interventi di taratura, chissà perché con abbondanza di esempi riferiti alle catene termometriche.
Sì, delle catene termometriche.
Probabilmente da parte di chi non ha mai utilizzato un data logger, quasi sicuramente non ha mai utilizzato un termometro in un laboratorio, certamente non lo ha mai utilizzato in un laboratorio microbiologico. Azzardiamo: crediamo non abbia in vita sua mai utilizzato un qualunque strumento di laboratorio, inclusi quelli per le analisi chimiche. Certo, non è obbligatorio averlo fatto, ma abbiamo l’impressione che per parlare del funzionamento di qualcosa averlo maneggiato aiuti molto.
E i laboratori, a volte un po’ creduloni (non quanto gli indigeni, certo), sono tentati di costruire le loro finte piste di atterraggio. Soluzioni apparentemente allettanti a problemi immaginari, guarnite con grafici colorati e formule strane, quasi quasi… Non può mancare una (inutile, lo si spiega qui) ennesima norma, in questo caso la ISO 10012. Forma perfetta, sostanza nulla.
Per cui, prima di correre a comprare il corso miracoloso basato sull’analisi dei rischi applicata al laboratorio, fermiamoci un attimo e ragioniamo, ricordandoci di essere laboratoristi. Vedremo che l’analisi dei rischi non è poi così complicata, se non la si vuole complicare apposta. Quali sono gli strumenti che tipicamente sono sottoposti a taratura in un laboratorio di analisi ambientali o alimentari? Ricapitoliamo per categorie:
- Termometri di varia natura
- Bilance, più o meno precise
- Strumentazione varia per analisi chimiche (spettrofotometri, cromatografi, ICP, pHmetri, ecc.)
Certamente, ogni taratura è un’operazione più o meno complessa, sicuramente costosa in termini economici e che richiede di impiegare del tempo. Altrettanto certamente il risparmio di risorse è auspicabile, al giorno d’oggi più che mai.
Ma quanto costano queste tarature?
- Termometro primario, poche centinaia di euro, da fare ogni tre anni, secondo le guide AML e QAC;
- Termometri secondari, mezz’ora di lavoro per termometro (ma se ne può anche tarare più di uno con un’unica operazione), da fare ogni anno, sempre secondo le nostre amate guide;
- Pesiera, poche centinaia di euro, da fare ogni cinque anni, secondo le guide AML e QAC;
- Bilance, diciamo un’ora di lavoro, da fare ogni anno; se l’affidate all’esterno qualche centinaio di euro a bilancia;
- Strumentazione per analisi chimiche: variabile a seconda dello strumento, generalmente associata all’avvio del ciclo analitico, diciamo meno di un’ora di lavoro (molto meno) e un po’ di materiale certificato che, se non consumato, scadrà comunque in breve tempo.
Sono in gioco cifre e tempi minimi. Se, grazie alle alchimie degli autoproclamati esperti di rischio riuscissimo a risparmiare il 50% di tutto ciò, porteremmo forse a casa meno di 200 euro all’anno e qualche ora di lavoro.
Ah, quanto costa il corso miracoloso e quanto tempo di partecipazione richiede..?
Però un po’ del famigerato rischio vogliamo parlarne… Torniamo ai nostri strumenti e vediamoli uno per uno.
Termometri: ma davvero qualcuno ha mai sentito di termometri andati in deriva di cui ci si accorge dopo mesi? Di solito il termometro è piazzato dentro un qualche incubatore o frigorifero. Se, cosa peraltro molto improbabile, il data logger impazzisse non ce ne accorgeremmo forse quasi all’istante confrontando il valore indicato con quello indicato dallo strumento controllato? E comunque, a quanto ci risulta, i data logger se si guastano smettono di funzionare del tutto. Se indicano un numero sbagliato ciò che si legge è più una runa gotica lampeggiante come questa ᛈ ᛞ ᛋ che una cosa come “36°C”. Le variazioni dei risultati delle tarature da una volta all’altra sono dovuti più al caso che a fantomatiche tendenze (magari da rilevare con astruse carte di controllo, ovviamente tipo Shewart che fa più fine oltre ovviamente a richiedere di partecipare a un altro corso).
Bilance: anche le bilance, come i termometri, ormai sono elettroniche. Se non le prendiamo a martellate e non le riempiamo di polvere hanno la curiosa tendenza a continuare a funzionare in modo ottimale, senza problemi e senza derive. Chi le utilizza lo sa bene. Siamo davvero convinti che possa servirci altro, oltre al tradizionale pesino (o pesini, facciamo pure due o tre livelli) da piazzare sul piattino prima di usare la bilancia? Quando poi le bilance si utilizzano per pesate con tolleranza del 5%, come in microbiologia (secondo ISO 6887), ecco affiorare il ridicolo, come nella religione del cargo.
Strumentazione complessa per chimica: la maggior parte dei metodi richiede taratura all’inizio della serie analitica e controlli ogni tot campioni. Se anche la taratura si fa “ogni tanto” uno standard intermedio di controllo lo si utilizza comunque. A meno che non abbiate una dozzina di tripli quadrupoli attivi h24 difficilmente ci sarà da preoccuparsi di fare complicate valutazioni per ridurre le frequenze di taratura e controllo. Per gli strumenti più delicati la manutenzione ordinaria (sostituzione setti, guarnizioni, tubicini in base all’usura, che conosciamo) e manutenzione affidata all’esterno, di solito annuale, completano il quadro.
Ecco fatta l’analisi del rischio.
Dove sta esattamente il rischio “residuo”? Dove l’evento non rilevabile? Perché imbarcarsi in valutazioni complicate per continuare a fare quello che si sta facendo, veramente poco impegnativo, e risparmiare poche centinaia di euro e poche ore di lavoro (ore che poi perderemo dietro ai grafici colorati)?
Non cadiamo nella trappola del cargo! Siamo laboratoristi, il metodo scientifico sappiamo cos’è. Diamo retta a Dick Feynman, un maestro in materia, e cerchiamo di non essere creduloni. Ascoltiamo chi parla con competenza pratica e cognizione di causa:
“May I also give you one last bit of advice: never say that you’ll give a talk unless you know clearly what you’re going to talk about”.
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