Le rane gonfie, i gattini ciechi e altre mosche cocchiere, ovvero la circolare ministeriale del 6 luglio 2023 sui metodi alternativi in microbiologia
Di mosche cocchiere operanti sugli OGM abbiamo parlato ieri. Altre pretendo di legiferare “in nero” riguardo ai controlli ufficiali degli alimenti in generale, in particolare sui metodi da utilizzare nell’ambito del controllo ufficiale.
L’argomento “metodi alternativi in microbiologia” non è affatto nuovo. Di nuovo (6 luglio 2023) c’è che il Ministero della Salute, in particolare la Direzione generale per l’Igiene e la Sicurezza degli Alimenti e la Nutrizione (DGISAN), ha emesso una circolare che tratta della questione dell’utilizzo dei metodi alternativi in microbiologia. La circolare è indirizzata agli assessorati regionali alla sanità, agli istituti zooprofilattici, all’Istituto superiore di sanità.
Già si parte male: mancano importanti soggetti anche istituzionali interessati alla questione, come Accredia, gli ordini professionali, le associazioni di laboratori, quelle delle aziende alimentari (che spesso hanno un laboratorio interno e che sono comunque destinatarie dei provvedimenti sanzionatori in caso di non conformità analitiche), oltre ad altri laboratori pubblici che operano nel settore dell’analisi (ARPA, APPA, laboratori di sanità pubblica, eccetera: si spera che questi vengano informati dagli assessorati regionali, ma chissà).
Prima di esaminare la circolare, che fa riferimento a una misteriosa riunione “svoltasi il 13 giugno scorso” (non è dato a sapere da chi indetta né chi siano stati i partecipanti), è utile rivedere alcuni passaggi importanti del regolamento CE 2073/2005, ripercorrendo la storia del regolamento e della sua applicazione, nonché l’insieme delle norme applicabili alle questioni discusse nella circolare. Il regolamento CE 2073/2005, nato prematuro, è ormai quasi maggiorenne ma ancora molti suoi punti non sono chiari alla maggioranza degli addetti ai lavori. Proviamo quindi a chiarirli.
Il regolamento 2073
Come è noto, il regolamento, facente parte del cosiddetto “pacchetto igiene” ma promulgato un anno dopo gli altri regolamenti del “pacchetto”, tratta dei “criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari”, e fa riferimento alle altre norme specifiche in materia di igiene degli alimenti (regolamenti 853 e 854, quest’ultimo ora abrogato e sostituito dal Regolamento UE 2017/625).
Regolamento, il 2073, scritto in fretta e venuto piuttosto male, come i proverbiali gattini ciechi della gatta frettolosa. Ma vediamo quanto ci interessa relativamente alla recente circolare ministeriale.
L’art. 1 definisce l’oggetto e il campo di applicazione del regolamento e prevede che “l’autorità competente verific[hi] il rispetto delle norme e dei criteri di cui al presente regolamento conformemente al regolamento (CE) n. 882/2004” (il riferimento aggiornato “passa” al regolamento 625/2017). In pratica prevede che il controllo ufficiale, almeno per i parametri microbiologici considerati dal regolamento (e per l’istamina, propriamente un parametro chimico), si basi su analisi effettuate come previsto dal regolamento, seppur “senza pregiudizio del suo diritto di procedere a ulteriori campionamenti ed analisi per la rilevazione e la misura della presenza di altri microrganismi, delle loro tossine o dei loro metaboliti, o come verifica dei processi, per i prodotti alimentari sospetti, o nel contesto dell’analisi del rischio”. L’ultima frase è sibillina, per certi versi, ma il pronome “altri” (riferito ai microrganismi) porta ragionevolmente a pensare che il senso della frase sia quello di non precludere al controllo ufficiale le appropriate indagini per parametri diversi da quelli considerati nel regolamento (come ad esempio Vibrio parahaemolyticus, previsto dal “considerando” 27 del regolamento ma per il quale non sono al momento né individuati metodi di riferimento né fissati criteri).
In definitiva è abbastanza chiaro, almeno fino a questo punto, che i metodi di riferimento, almeno per i parametri analitici riportati nell’allegato I del regolamento, non possono che essere quelli indicati nello stesso allegato.
L’art. 4, evidentemente (è palese nel testo) indirizzato ai soli operatori del settore alimentare (e non al controllo ufficiale) prevede (punto 1) l’esecuzione di analisi “nei modi appropriati” da parte degli operatori del settore alimentare, oltre a fornire indicazioni sulle frequenze di campionamento, non di interesse in questa sede.
La questione dei metodi “alternativi” (per i quali manca nel regolamento una precisa definizione), la cui applicabilità è discussa nella recente circolare, è trattata all’art. 5.
E qui le cose si complicano, almeno per chi vuole proprio complicarle (e in questi 18 anni parecchi lo hanno fatto, soprattutto nel mondo del controllo ufficiale) o per chi vuole continuare a farlo, come gli autori della circolare.
Il punto 1) dell’articolo 5, non esplicitamente indirizzato agli operatori del settore alimentare o ai laboratori del controllo ufficiale, quindi ragionevolmente applicabile per entrambi, rimanda ai metodi di analisi e ai piani di campionamento indicati nell’allegato I (metodi ISO o EN/ISO, recepiti in Italia da UNI, oppure specifiche tecniche CEN/ISO) individuandoli come “metodi di riferimento”.
Si direbbe quindi, fin qui, che nessuna deroga possa interessare le analisi finalizzate alla verifica della conformità degli alimenti ai criteri microbiologici per i parametri previsti dal regolamento. Pare proprio che si confermi quanto già detto riguardo all’art. 1.
Il punto 2) dell’articolo tratta del prelievo di campioni dalle attrezzature e dalle aree di lavorazione e il suo contenuto non è di interesse in questa sede.
Il successivo punto 3) prevede che “il numero di unità campionarie da considerare nei piani di campionamento di cui all’allegato I [possa] essere ridotto se l’operatore può documentare l’applicazione di procedure efficaci basate sui principi HACCP”. E su questo punto ricordiamo intense battaglie contro certi responsabili del controllo ufficiale, gonfi come la rana della favola di Esopo, che pretendevano le 5 unità campionarie nell’ambito dell’autocontrollo, interpretando a modo loro il contenuto della legge, la quale prevede la “soddisfazione dell’autorità competente” non per questo aspetto bensì per quanto considerato al successivo punto 5), il quale tratta proprio della scelta dei metodi di analisi, e di quelli di campionamento. (Analfabetismo funzionale? Forse. Manifesta incompetenza in materia di analisi, campionamenti, laboratori e dintorni? Ci pare palese. Supponenza e arroganza. Palesi anche queste.)
Abbiamo approfondito il contenuto del punto 3) giusto per mostrare come certe bizzarrie interpretative non siano affatto una novità. Passiamo al punto 4).
Esso prevede (senza riferirsi né agli OSA, né al controllo ufficiale) che, in ogni caso, se si tratta di “valutare in modo specifico l’accettabilità di una determinata partita di prodotti alimentari o di un processo, la condizione minima richiesta è il rispetto dei piani di campionamento di cui all’allegato I”. Abbastanza chiaro quindi che, sia nell’ambito dell’autocontrollo, sia nell’ambito del controllo ufficiale, non si possa dichiarare conforme o non conforme una partita di alimenti, con tutte le conseguenze del caso, a meno di analizzare tutte le unità campionarie previste (di solito cinque, nove nel caso dell’Istamina). La recente circolare ministeriale non tratta peraltro di questo argomento, comunque fondamentale, e non ci dilungheremo oltre sul tema. Magari ci torneremo in futuro.
È però nell’ultimo punto dell’articolo 5, il 5), come modificato dal Regolamento (UE) 2019/229 della Commissione, del 7 febbraio 2019, che viene introdotta la questione dei metodi “alternativi”.
Notiamo però, innanzitutto, che il punto 5) è palesemente indirizzato agli operatori del settore alimentare: “gli operatori del settore alimentare possono ricorrere ad altre procedure di campionamento e di prova, a condizione di dimostrare, con soddisfazione dell’autorità competente, che tali procedure forniscono garanzie almeno equivalenti”. Il succo è “ se tu OSA vuoi …osare utilizzare altri metodi l’organo di controllo deve essere d’accordo. Segue la precisazione, sempre nel punto 5), secondo la quale (interpretando) l’utilizzo di parametri indicatori (al posto di quelli dell’allegato) o di marcatori (es. ATPasi) sono consentiti solo per i criteri di igiene del processo, non per i patogeni.
Ciò è oltremodo chiaro alla lettura del “considerando” (24) del regolamento: “I risultati delle analisi dipendono dal metodo analitico utilizzato; pertanto occorre associare ad ogni criterio microbiologico un metodo di riferimento specifico. Tuttavia, gli operatori del settore alimentare devono avere la possibilità di usare metodi d’analisi diversi dai metodi di riferimento, in particolare quelli più rapidi, a condizione che tramite tali metodi alternativi si ottengano risultati equivalenti. È inoltre necessario definire un piano di campionamento per ciascun criterio, al fine di garantire un’attuazione armonizzata, autorizzando tuttavia l’uso di altri sistemi di campionamento e analisi, compreso il ricorso ad organismi indicatori alternativi, a condizione che essi forniscano garanzie equivalenti in merito alla sicurezza alimentare“. Gli operatori del settore alimentare. NON i laboratori del controllo ufficiale!.
Proseguendo, sempre nel punto 5), sempre rivolto agli OSA, si legge che possono essere utilizzati metodi “alternativi” solo se validati secondo ISO 16140-2 in forma generica o specifica per una certa categoria di alimenti, oppure metodi “proprietari” (che la circolare confonde con quelli “alternativi”), in questo caso validati e certificati, ad esempio da AFNOR e altri, inizialmente e periodicamente, a cura del proprietario del metodo (ad esempio BioRad, BioMérieux, e altri). La ISO 16140-2 riguarda la validazione sia dei metodi “alternativi” in generale, sia di quelli “proprietari”, in ogni caso per confronto con un metodo di riferimento (quelli indicati nell’allegato I del regolamento).
Attenzione! I metodi “alternativi” possono evidentemente essere metodi non proprietari, magari sviluppati da un laboratorio o da un gruppo di laboratori, i quali possono permettersi una validazione “autonoma”. I metodi “proprietari”, invece, sono per l’appunto quelli “di proprietà” di un’azienda, la quale provvede alla validazione.
Sembrerebbe infine, a una lettura logica dall’ultimo comma del punto 5), ove si stabilisce che gli OSA possono utilizzare metodi diversi da quelli alternativi o proprietari internazionalmente validati (ovvero metodi sviluppati internamente) solo previa validazione, evidentemente interna al laboratorio (“conforme a protocolli riconosciuti a livello internazionale”, come ad esempio la ISO 16140-4, non citata esplicitamente dal regolamento), nonché previa autorizzazione dell’autorità competente, che la suddetta autorizzazione non sia necessaria per i metodi, “alternativi” o “proprietari”, validati secondo ISO 16140-2, citati nei precedenti commi.
Riassumendo:
- Metodi “alternativi”, validati conformemente alla ISO 16140-2, utilizzabili dagli OSA senza necessità di autorizzazione da parte dell’autorità competente;
- Metodi “proprietari”, validati conformemente alla ISO 16140-2, muniti di certificazione da parte terza, utilizzabili dagli OSA senza necessità di autorizzazione da parte dell’autorità competente;
- Altri metodi diversi da quelli di riferimento, utilizzabili dagli OSA previa validazione “autonoma”, ad esempio secondo ISO 16140-4 e previa autorizzazione da parte dell’autorità competente.
Quante ISO 16140! C’è anche la 16140-3, della quale parliamo qui, ma che serve solo per la verifica prestazionale nei laboratori. Altra questione, non pertinente al discorso che stiamo facendo, se non marginalmente.
E invece, nel controllo ufficiale, secondo la legge, si possono o no utilizzare metodi alternativi? La circolare (iniziamo a leggerla) chiarisce che “i metodi alternativi per la ricerca dei patogeni possono essere utilizzati solo in fase di screening, il cui esito positivo deve essere confermato con i metodi di riferimento”. Bene. Si supplisce all’assenza di indicazioni specifiche nell’art. 5, punto 5), del regolamento 2073.
Per risolvere il problema occorre passare alle disposizioni del regolamento UE 625/2017, in particolare all’articolo 34, il quale stabilisce che “i metodi di campionamento e di analisi, prova e diagnosi di laboratorio utilizzati nel contesto dei controlli ufficiali e delle altre attività ufficiali sono conformi alle norme dell’Unione che stabiliscono tali metodi o ai relativi criteri di efficienza”, e solo in caso di assenza delle suddette norme possano essere utilizzati altri metodi, in primis metodi normalizzati (CEN) e in subordine metodi sviluppati dai laboratori di riferimento dell’Unione e validati (in assenza anche di questi ultimi devono essere utilizzati metodi validati, anche se sviluppati nei singoli laboratori, e solo in casi estremi metodi diversi “in attesa della convalida”).
In definitiva un ulteriore rimando “a norme dell’Unione”, quindi nel caso specifico al regolamento 2073 che, come abbiamo visto in precedenza (in particolare art. 1), impone ai laboratori del controllo ufficiale di utilizzare per le analisi microbiologiche i metodi di riferimento, consentendo invece agli OSA di utilizzare, in determinate circostanze e per determinati scopi, metodi differenti. Detto ciò, possiamo proseguire in dettaglio l’esame della recente circolare ministeriale.
La circolare ministeriale
Essa esordisce affermando che “i metodi alternativi convalidati e accreditati sono ampiamente utilizzati come screening per il controllo ufficiale in Italia e in altri stati membri” (viene citata specificamente l’Irlanda), confermando con il metodo di riferimento solo i campioni risultati positivi. Fin qui nulla di male.
Vengono citate “attuali restrizioni all’utilizzo di tali metodi” che sarebbe necessario rimuovere. Probabilmente le “restrizioni” sono quelle, tuttora valide, che abbiamo discusso in precedenza, in base a una corretta lettura delle norme applicabili. Possiamo in generale essere d’accordo: i metodi alternativi validati, in particolare quelli “proprietari”, sono ormai in grado di fornire risultati per lo più affidabili, ma questi vanno usati con criterio e ragionevolezza. Buona anche l’iniziativa, citata nella circolare, di perorare presso i competenti uffici dell’Unione la causa di una modifica normativa che faciliti l’utilizzo di metodi alternativi validati, secondo modalità ben definite. Pare che la Commissione europea sia orientata in questo senso, essendosi, a detta della circolare “impegnata ad elaborare il testo di un regolamento di esecuzione che elenchi i metodi di analisi alternativi che le autorità competenti possono applicare per i controlli ufficiali atti a verificare il rispetto dei criteri microbiologici”. Ottimo, fin qui.
Riteniamo però che queste modifiche richiedano la dovuta attenzione e debbano tenere in considerazione tutti gli aspetti rilevanti, in particolare quelli scientifici, come quelli discussi qui, nonché le conseguenze che le decisioni prese possono avere sulla libera circolazione delle merci e sulle aziende e consumatori. Abbiamo esperienza diretta e personale, nonché ampia notizia, di clamorosi errori analitici che avrebbero (o hanno, per casi che non hanno toccato direttamente i nostri clienti) portato ad ingiustificati allarmi e richiami di merci, errori poi smentiti dall’analisi con metodo di riferimento.
La palla dovrebbe a questo punto passare al legislatore, necessariamente a quello europeo data la specifica competenza in materia di sicurezza alimentare, non certo alla Direzione Igiene e Sicurezza Alimenti del Ministero della Salute, con palese violazione del diritto comunitario, sintetizzata nel periodo finale della circolare (in cauda venenum):
“Inoltre, considerata la validità tecnico-scientifica delle metodiche accreditate, quando in una matrice alimentare, a seguito di campionamento ufficiale, viene riscontrato un agente patogeno, l’alimento deve essere ritenuto non idoneo al consumo e potenzialmente nocivo; occorre quindi necessariamente agire in conformità alla legge 283/1962; l’Autorità giudiziaria valuterà la sussistenza o meno di elementi penalmente rilevanti”. Non si afferma esplicitamente, ma sembra si voglia dare a intendere (e così hanno inteso in molti, nell’ultimo mese), che sia sufficiente il risultato dell’analisi con metodo di screening “alternativo” per avviare il procedimento penale.
Se così non fosse sarebbe meglio chiarire l’ambiguità, se invece fosse proprio così ciò stravolgerebbe evidentemente e pesantemente il dettato dell’articolo 1 del regolamento 2073 in disposto combinato con l’articolo 34 del regolamento 625, secondo il quale le analisi microbiologiche del controllo ufficiale alle quali fare riferimento sono solo quelle effettuate con i metodi di riferimento indicati nel regolamento 2073. Ci penseranno allora gli avvocati, con l’aiuto dei periti, a ristabilire le basi del diritto, almeno finché l’Unione, e non un direttore generale che non ne ha alcun titolo, non provveda a modificare la normativa esistente.
10 agosto 2023
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